Autorizzazione Tribunale di Roma n. 378 del 30/09/2005
 
Rivista bimestrale - Anno I - Mag./giu. 2006, n. 3
INTERFERENZE 

LETTERATURA CINEMA TEATRO


Il cinema tra presente e futuro
di Marina Turco



La rivoluzione informatica, attraverso il digitale, già da tempo raccoglie i suoi frutti nel campo cinematografico, non solo favorendo una maggiore agilità del sistema produttivo, ma mutando la stessa idea storica di cinema. Le innovazioni che il fenomeno introduce sono in primo luogo di ordine linguistico. Se da un lato il nuovo linguaggio richiede all'immagine di operare con la funzionalità di un link, cioè di un raccordo che schiude molteplici piani narrativi, sollecitando letture multiple di un'unica storia, dall'altro assegna ad essa il potere di un'icona che veicola informazioni e significati dialogando con la sensibilità interpretativa di chi osserva. Tutto ciò è possibile grazie al ricco armamentario tecnico di cui oggi dispone la cinematografia: frammentazioni in split screan, schermi multipli, cornici etc., come in The Pillow Book o in Prospero's Book di Greenaway. Il film si trasforma così in un “ipertesto”, in un'opera ricca e stratificata di rimandi, dalle dinamiche più simili al sogno che disarticola le convenzionali logiche compositive del racconto lineare ed inaugura, di riflesso al cambiamento tecnologico in atto, nuovi modelli di scrittura. Contenuti che inseguono libere associazioni e strutture narrative che si frantumano, come in Mulholland Drive di David Linch, convertitosi interamente al digitale nella sua ultima opera, Inland Empire .
Tale rivoluzione percorre, però, anche una seconda strada, autorizzando la trasposizione di un mondo fantastico in termini realistici o viceversa, quelli di un mondo umano in termini piuttosto fantastici come conseguenza al chiaro processo di ibridazione dei linguaggi avvenuto tra il cinema di animazione e il cinema tradizionale. Si chiama “Digital Video” la tecnica che ha consentito tale evoluzione, autorizzando un sistema di percezione sensoriale complesso. Procediamo dunque per gradi, analizzando i caratteri tecnici che rendono possibile questo prodigio creativo.
Il procedimento chimico d'impressione della luce nella pellicola tipica delle riprese in 35 mm, viene oggi sostituito da un processo per scansioni, che trasforma la luce in un segnale elettronico grazie ad uno o più microprocessori, detti ccd (charge-couple device). Ciascuno di questi si compone a sua volta di una griglia sottile di punti detti PIXEL, ossia punti elettronici che poi processati dal sistema video, producono una serie di linee, chiamate raster. Set virtuali, interamente elaborati al computer che eliminano l'impiego di pesanti scenografie, strumenti di correzione dei fotogrammi mediante una tecnica chiamata “Morphing” che ne cancella, modifica o sostituisce parti con programmi di manipolazione sempre a più alta definizione. Inoltre la possibilità di arricchire i cromatismi intervenendo con dei ritocchi sulle immagini e di inserire attori virtuali tra gli attori in carne ed ossa. Il montaggio non avviene più sulla pellicola: oggi è possibile inserire tutto il girato sul computer e lavorarlo attraverso il mouse, grazie ad un software. Queste le implicazioni parziali del digitale, ormai ampiamente diffuse nella fase di post-produzione, poiché, per un passaggio definitivo a tale supporto in fase di ripresa, che consentirebbe peraltro un notevole decremento dei costi di produzione, non abbiamo ancora a disposizione sale provviste della strumentazione necessaria. Sono però in cantiere vari esperimenti, come la sala a 360°, il cinema multisensoriale che cerca altre strade per la fruizione o quella ad ologramma, nella quale vi è una proiezione avanti e indietro.
La conseguenza più eclatante che contraddistingue il secondo secolo di vita del cinema, è insomma la possibilità di creare delle sequenze cinematografiche sganciate totalmente dal reale, servendosi cioè interamente di un programma di animazione in tre dimensioni. Toy Story (1995) di John Lasseter è il primo lungometraggio di animazione tutto girato in digitale .
Da oggi saranno sempre più i numeri digitali e le basi algoritmiche a narrarci delle storie, generando una specie di anomala confluenza tra scienze ed arti, ove anche il prodotto più irrazionale della mente sarà suscettibile di esser ridotto a dati numerici.
Ma esiste anche un' ulteriore confluenza, quella tra cinema e pittura, per la quale il fotogramma si trasforma in una sorta di quadro, quasi a voler evocare la memoria del pittore tedesco Fischinger, che usava la pellicola come una tela da dipingere, giungendo persino ad escludere le riprese dal vivo.
Punto di contatto tra arte e scienza, tra organico e tecnologico è invero il corpo, che sosta sempre più nel crocevia tra realtà e finzione. Corpo diafano, copia fatta di pixel che compare nel riquadro di uno schermo cinematografico o nell'interfaccia di un computer, riproducendo in tutta verosimiglianza espressioni e movenze umane, o corpo invisibile che invece, attraverso l'interfaccia di un computer, viaggia in rete, superando le barriere dello spazio e del tempo o ancora corpo reale modificato, truccato, potenziato grazie all'osmosi tra cinema dal vero e quello animato come nel film Matrix . E ancora gli attori reali cartoonizzati di Polar express, grazie alle meraviglie della nuova tecnica della performance capture , riesumazioni digitali di attori scomparsi, come Brandon Lee nel film Il corvo; corpi in trasformazione come in La morte ti fa bella , figure che assommano l'estetica da cartoon con quella da videogioco, come in Final Fantasy o che celebrano le interrelazioni tra cinema e videogiochi, come ne Il quinto elemento di Luc Besson, in Doom Generation di Greg Araki e in eXistenZ di David Cronenberg. Il processo è circolare, di interscambio tra un'umanità che produce tecnicamente il suo doppio “perturbante” mediante eserciti di attori digitali, mutanti, mostri, cartoon etc. ed una tecnologia che oltrepassa i limiti, sconfinando in altri territori di applicabilità come quello umano. E il doppio dialoga pericolosamente con l' originale di cui è simulacro, malgrado il silenzio impostogli dalla sua artificialità, potrebbe ben argomentare H.V.Kleinst.
Alla cultura del “vedere”, tipica del XX secolo, sembra subentri quella della “sensorialità”, alla quale contribuisce non solo la virulenta azione dell'informatica, ma in larga parte l'ampliarsi delle pretese percettive, già anticipate da alcuni esperimenti degli anni ‘70.
Alcuni progetti attuali di cinema interattivo forse amerebbero mettere in pratica l'idea di cinema totale del critico cinematografico e romanziere francese Renè Barjavel , di quel cinema che sfonda il mondo fisico dei corpi e delle cose e che entra in un suo doppio fantasmatico di figure tridimensionali, di volumi fatti di “onde” o anche l'idea di “cinema espanso”, inventato da Gene Youngblood negli anni sessanta, i cui caratteri erano il sincretismo, cioè la combinazione di differenti arti in un unico evento, e la sinestesia, contemporanea fruizione di impulsi opposti, al fine di offrire un' esperienza capace di ampliare la coscienza.
Il digitale non mette in pericolo il cinema, ma ne amplia le possibilità, anche se oggi gli esperimenti più audaci di simulazione immersiva trovano spazio all'interno di quella che si definisce realtà virtuale, avviandosi così ad una destinazione in tutto scissa dai destini del grande schermo. Insomma, malgrado qualcuno ami prefigurarsi per quest'arte scenari fantascientifici, il suo statuto sembra ancora essere protetto da forti resistenze. Ma per quanto tempo ancora?